lunedì 6 giugno 2016

15 Anni di Six Feet Under

Il 3 Giugno 2001, sul canale americano HBO, andava in onda la prima puntata di una nuova serie dal suggestivo titolo SIX FEET UNDER (Sei piedi sotto terra).
Scritta da Alan Ball, lo sceneggiatore premio Oscar di American Beauty (1999), questa serie, anche se nessuno 15 anni fa poteva immaginarselo, sarebbe diventata la madre di tutte le serie televisive, sarebbe stata il punto di partenza di quell'onda immensa e inarrestabile che avrebbe travolto a breve le nostre vite.
Poi sarebbero arrivate The Wire, Breaking Bad, Game of Thrones, Mad Men, ma allora, 15 anni fa, tutto questo era impensabile, tutto questo, semplicemente, non esisteva.
Rimasto sconvolto dal tragico decesso della sorella quando aveva solo 13 anni (lei ne compiva 22 quel giorno, e Ball l'ha vista morire davanti ai suoi occhi mentre erano in macchina), lo sceneggiatore ha fatto della morte un tema omnipresente nella sua opera. 
In Six Feet Under (che in misure americane indica la profondità alla quale viene calata una bara nella terra) la morte è la protagonista assoluta.
Ogni singolo episodio inizia con un decesso, e i protagonisti della serie sono i membri della famiglia Fisher, che gestiscono un'impresa di pompe funebri a Los Angeles. C'è il padre (è lui il primo a morire nel primo episodio, ma continuerà ad essere visibile e a parlare agli altri Fisher), la madre, il figlio maggiore Nate, appena rientrato da Seattle dove ha cercato di creare un business alternativo senza riuscirci, il figlio di mezzo, Dave, che lavora nell'azienda di famiglia e da sempre è in conflitto con la propria omosessualità, e la figlia più piccola Claire, ribelle dal temperamento artistico:
Per cinque stagioni, dal 2001 al 2005, abbiamo seguito i destini di ogni Fisher e quello delle persone che a loro si legavano: fidanzati e fidanzate, mariti e mogli, figli, parenti vari, amici.
Era come avere un'altra famiglia, così facile da amare perché così delirante, disfunzionale, geniale, disperante, complicata, a volta insopportabile ma la maggior parte del tempo totalmente irresistibile.
Senza nemmeno rendercene conto, io e un folto gruppo di amici (e di gente sparsa in giro per il mondo), ci siamo messi a guardarli allo stesso momento, senza perderci un episodio, discutendo di ogni dettaglio, scambiandoci opinioni, creando un vero e proprio "movimento" di fans scatenati di Six Feet Under. Facebook e Twitter non c'erano ancora.
Era tutto artigianale, un po' ingenuo, ma molto sentito, molto speciale (era la prima volta, che lo provavamo).
E' andato tutto bene fino a quando non sono arrivati gli ultimi tre episodi dell'ultima stagione. La fine, insomma. E anche se lo sapevamo, anche se non potevamo nasconderci che un giorno questa cosa sarebbe arrivata, nessuno di noi era pronto all'impatto emotivo devastante che stava per travolgerci.
Nei miei ricordi, ho pianto ininterrottamente per giorni. 
La mattina arrivavo in ufficio con certi occhi gonfi che la gente pensava mi fosse capitata una disgrazia e, in un certo senso, mi era capitata per davvero. Perché Alan Ball, per metterci in ginocchio, aveva deciso (mi spiace, ma qui lo spoiler è nettamente superato a più di dieci anni dalla fine) di far morire Nate a tre puntate dalla fine, di dedicare il penultimo episodio al suo funerale, e infine, in una lunghissima, incredibile sequenza che rimarrà per sempre nel nostro immaginario collettivo, di farci vedere la morte di tutti i protagonisti della serie nell'ultima puntata.
La loro morte "futura", per così dire.
Insomma eravamo diventati all'improvviso tutti orfani. E non potevamo far altro che piangere e disperarci.
La prima volta che ho messo piede a Los Angeles, è stato nel 2008, ed ero lì per lavoro. 
Nel mio unico giorno libero, nonostante tutti mi dicessero di andare a vedere gli studios, io mi sono fatta portare da amici che avevano una macchina (io manco ho la patente) a vedere l'unico edificio che per me davvero contava in tutta la città: la casa al 2302 West 25th Street, la Fisher & Sons Funeral Home. Mi sono fatta fare questa servizio fotografico piantata lì davanti e ad un certo punto è arrivato un ragazzo con macchina fotografica in spalla. Ci ha fatto un cenno di saluto: Six Feet Under? - ha chiesto. Noi gli abbiamo fatto di sì con la testa. "Sono venuto apposta da Denver" - ha continuato.
"Noi da Parigi", ho risposto, con aria di sfida.
Ha fatto un gesto di resa con le mani, come a dire: avete vinto voi.
Zazie davanti alla casa dei Fisher - LA, Febbraio 2008
A tutti quelli che ancora non hanno visto questa serie, io non posso far altro che consigliare caldamente di guardarla. Anche sapendo il finale, anche avendo letto tutto quello che è stato scritto in questi anni di discussioni sulle serie TV e sulla loro sempre più grande influenza ed importanza sulle nostre vite. Perché non esiste, un'altra serie così. 
Ne sono state fatte di bellissime ed imperdibili, dopo, ci mancherebbe, ma i Fisher sono stati i precursori.
Sul cofanetto della serie completa, ovviamente a forma di bara, campeggia la scritta: 
Everything.
Everyone.
Everywhere.
Ends.
Di eterno, si sa, c'è solo il nostro amore per Six Feet Under.

1 commento:

  1. Bellisima serie, ho cercato online per rivederla ma senza risultato, anche io ho pianto quando è morto Nate, sembraba veramente come si mio fratello morise.
    Serie reale, cruda e senza paura, ma nell'stesso sentimentale.

    RispondiElimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...