mercoledì 25 maggio 2016

Film di Cannes

Come scrivevo nel mio precedente post, qui a Parigi negli ultimi giorni è stato possibile vedere diversi film provenienti dal Festival di Cannes.
Se avete voglia di farvi un’idea di cosa è meglio vedere e cosa è meglio evitare, e vi fidate della vostra cinema blogger preferita (si spera!), ecco qua i consigli di Zazie:

CAFE SOCIETY di Woody Allen (US) 
Non so voi, ma io faccio parte di quella categoria di persone che ogni anno, con la faccia beata, si siede al cinema aspettando di sentir partire la musichetta jazz e i titoli di testa con il font sempre uguale che Allen usa da 30 anni a questa parte. Il che non significa che quello che vedrò sarà garanzia di un bel film, ma il piacere dell’attesa è sempre intatto, e il più delle volte non rimango delusa. Ad ogni modo, tanto avevo trovato noioso ed insulso il precedente Allen (Irrational man), tanto ho trovato delizioso e scoppiettante quest’ultimo.
Ambientato tra Hollywood e New York negli anni ’30, Café Society racconta la storia di Bobby, un ragazzo ebreo originario del Bronx che va a LA a cercare fortuna e inizia a lavorare per lo zio Phil, potentissimo agente di star hollywoodiane. Innamoratosi perdutamente di Vonnie, la segretaria dello zio, riesce ad avere una breve storia con lei, ma la ragazza gli preferisce un altro. Rientrato a NY con il cuore spezzato, Bobby si metterà a gestire il night club di famiglia, il Café Society, troverà anche un'altra donna, ma il ricordo di Vonnie sembra non abbandonarlo...
Puro concentrato di tutto ciò che c’è di più Alleniano al mondo, questo film è un piacere per gli occhi (Vittorio Storaro fa meraviglie nell’illuminare città che non esistono se non nella testa del regista) e per la mente: i dialoghi sono brillanti, le situazioni buffe, romantiche e irresistibili. Su tutto però, come sempre più spesso accade nei film di Allen, plana e si fa strada una malinconia dai risvolti struggenti. Una sofferenza vera e profonda per cose-persone-sentimenti perduti che non ritorneranno mai più. 

A testimoniarlo, una nota di tristezza infinita nella voce off che accompagna tutto il film, quella - lo si nota con un po' di sgomento - di Woody Allen stesso.


JULIETA di Pedro Almodóvar (Spagna)
Non so voi, ma io faccio parte di quella categoria di persone che ogni 2-3 anni, con la faccia beata, si siede al cinema aspettando di veder comparire la scritta “El Deseo presenta”, seguita dal nome di Almodóvar, di solito su sfondo giallo o rosso, o di un altro colore molto acceso. E il più delle volte non rimango delusa. Se c’è un regista che mi ha tenuto compagnia lungo il corso della mia intera esistenza è proprio lui, Pedro. Dai deliri della Movida anni ’80 ai mélo perfetti ed eleganti di oggi, il suo percorso cinematografico sempre in divenire non finisce mai di stupirmi e di ammaliarmi, anche quando inciampa in film di transizione poco convincenti (tanto si sa che quello dopo sarà un capolavoro e allora ci si mette tranquilli). Con Julieta, il suo nuovo film, Almodóvar fa un altro passo in avanti verso una forma di cinema che sembra stare esattamente a metà strada tra i suoi due universi. Ambientato in parte negli anni ’80 e in parte ai giorni nostri, il film racconta la storia di Julieta, una donna di mezza età che sta per andare a vivere con il compagno a Lisbona ma che cambierà idea a causa di un incontro fortuito con un’amica della sua unica figlia, Antìa. La ragazza se n’è andata di casa 12 anni prima e da allora la madre non ha più avuto sue notizie. Il film ricostruisce a ritroso la vita di Julieta sino a ricongiungersi con il suo presente. Le due donne riusciranno finalmente a ritrovarsi? 
Come se volesse andare dritto al cuore della narrazione, Almodóvar si sbarazza di tutto ciò che è superfluo, persino dell’ironia a lui tanto cara, e si concentra su poche cose: pochi personaggi, pochi volti, pochi luoghi (ah, le case dei suoi film, le pareti, quelle quattro mura, importanti tanto quanto gli esseri umani), e tutti essenziali. Julieta è un concentrato di temi e moti dell’animo almodovariano, che stanno diventando sempre più universali. Il senso di colpa, il non detto, i silenzi, l’amore, il destino, insomma la vita in tutto il suo terribile splendore. Che volete che vi dica, io l'adoro. 

LA FILLE INCONNUE di Jean-Pierre & Luc Dardenne (Belgio)
Non so voi, ma io faccio parte di quella categoria di persone che ogni 2-3 anni, con la faccia beata, si siede al cinema aspettando di veder comparire un cielo grigio e freddo che non può che inconfondibilmente essere quello del Belgio dei Fratelli Dardennes.
Lo ammetto, ho un debole per questi due buffi tipi che sono tanto allegri e gioviali nelle interviste quanto rigorosi e ruvidi nelle storie che raccontano. Anche loro, come Ken Loach, totalmente dediti ad un cinema sociale che ha ormai pochi rappresentanti ma per fortuna ancora molti spettatori. Nonostante utilizzino spesso attori di chiara fama (basti pensare a Marion Cotillard nel loro bellissimo Deux Jours, Une Nuit) i Dardennes non fanno sconti o concessioni su quello che raccontano. Storie di gente normale, quasi sempre povera, che sta affrontando un momento difficile dal quale non è detto che si rialzerà. C’è chi li trova di una disperazione allarmante, io no, penso che alla fine di ogni loro film ci sia sempre posto per un briciolo di speranza, simile a quei fiori che si ostinano a crescere nei luoghi più impervi e nascosti dove non batte mai il sole. Nel loro ultimo film, La Fille Inconnue, ci vanno giù ancora più pesante del solito, rischiando di mettere a dura prova la pazienza dello spettatore.
Jenny, una giovane dottoressa di Liegi, è nel suo studio una sera tardi. Quando qualcuno suona alla porta, essendo l’ora delle visite già passata da un pezzo, la ragazza si rifiuta di aprire. Il giorno dopo, dei poliziotti le chiedono di poter visionare le immagini della sua camera di sorveglianza: una ragazza è stata uccisa la sera prima e sembra che sia passata di lì. Jenny si rende conto che si tratta della persona a cui non ha aperto la porta, una giovanissima ragazza di colore. Schiacciata dal senso di colpa, la ragazza si mette ad indagare per scoprire di chi si tratta.
L’essenzialità della trama e il rigore delle immagini sono portate ad un livello tale che se non si decide di seguire Jenny la si lascia volentieri per strada, e un po’ lo capisco. Non la migliore prova dei Dardennes ma comunque un film che ti lascia il segno. Persino alla fine, sui titoli di coda, piuttosto che regalare un attimo di conforto con un po’ di musica, i registi preferiscono lasciare in sottofondo il rumore delle macchine che passano per strada. 

Estremi ma ammirabili.


PERSONAL SHOPPER di Olivier Assayas (Francia)
Non so voi, ma io faccio parte di quella categoria di persone che fin dal suo esordio (Désordre, era il lontano 1986), si è chiesta se Olivier Assayas le piacesse oppure no. 
La verità è che ho molto amato alcuni suoi film e detestato o trovato totalmente inutili alcuni altri. 
Ho sempre navigato a vista, con lui, da una parte affascinata dalla sua incontestabile cinefilia (è stato redattore dei Cahiers du Cinéma) e dal suo amore per il cinema asiatico (tra l’altro è anche stato sposato con Maggie Cheung, l’attrice di In the mood for Love) e dall’altra irritata da quell’aura snob di cui spesso si circondano i registi francesi contemporanei, che sembrano tutti far parte di una setta il cui unico Dio è il loro ombelico. 
Il suo ultimo film, Personal Shopper (per il quale Assayas ha ricevuto a Cannes il premio alla regia), avevo parecchio voglia di vederlo perché mi era piaciuto tantissimo Clouds of Sils Maria (il suo film precedente) e perché la trama aveva l’aria piuttosto “space”: Maureen è una giovane americana che vive a Parigi e si mantiene facendo la personal shopper di una famosa attrice. La ragazza vorrebbe andarsene dalla città ma rimane nella speranza che il fratello, scomparso da poco, e che come lei era un medium, le invii un messaggio dall’al di là (un accordo che avevano preso prima che lui morisse). Un giorno, portando alcuni acquisti a casa dell’attrice per cui lavora, la trova assassinata. Questo e la coincidenza di un misterioso uomo che le scrive continuamente degli sms sul cellulare e che sembra sapere tutto di lei, cominciano a farla uscire seriamente di testa.
Vabbé, ammettiamolo, uno legge la trama e già comincia a farsi qualche domanda. Però non è che al cinema la trama è sempre importante (ci sono registi che ci hanno costruito dei film geniali sulla mancanza di trama, tipo Lynch), allora uno si dice: vedrai che ci sarà un’atmosfera speciale, che sarà intrigante questa cosa delle presenze ultra-terrene. Ehm... no, in effetti no. E poi bisogna considerare il pippotto sui mezzi di comunicazione moderna: il cellulare come nuovo poltergeist? Che sa tutto di noi, ci isola sempre di più e ci porterà alla follia? O forse, più semplicemente, un grandioso WTF?
Ecco io sarei più propensa per la terza ipotesi. L’unico momento che ho trovato davvero imperdibile è la sola scena in cui compare l’attore norvegese Anders Danielsen Lie: ha la barba ed è bellissimo!

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