sabato 20 ottobre 2012

Cesare Deve Morire

L'altra sera, guardando l'ultimo film dei Fratelli Taviani (uscito sugli schermi francesi questa settimana), ho pensato una cosa: ma che meraviglia questi registi ultra ottantenni che si mettono a fare dei film speciali, particolari, al di fuori di qualsiasi logica di mercato, in bianco e nero, e con un linguaggio super moderno!
Pensavo a loro ma pensavo anche ad Alain Resnais, la cui ultima opera è uno stranissimo film nel film, nonché quattro diverse rappresentazioni teatrali di una sola pièce, insomma un bel delirio che sembra il film sperimentale di un giovane appena uscito da una scuola di cinema e invece - guarda un po' - questo qui è nato nel 1922 (i Taviani invece nel 1929 e 1931). Per non parlare del regista portoghese Manuel De Oliveira, che a cent'anni suonati, sforna film come se fossero croissants.
Non è incredibile e bellissimo?
Sì, soprattutto quando ci regalano un diamante grezzo come Cesare Deve Morire, Orso d'Oro all'ultimo Festival di Berlino e film scelto per rappresentare l'Italia alla prossima corsa per gli Oscar (e facciamo già il tifo perché entri nella cinquina e perché lo vinca!).
Roma. Carcere di Rebibbia. Reparto di massima sicurezza. 
Un regista incontra i carcerati per proporre, come tutti gli anni, un laboratorio teatrale: questa volta si è scelto di rappresentare il Giulio Cesare di William Shakespeare. I carcerati fanno un provino in base al quale vengono assegnate le parti. Il film segue le prove, costrette a svolgersi in cella, nei corridoi o in altre sale del carcere, dal momento che il teatro è inagibile per lavori. Alla fine, il lavoro viene rappresentato davanti a veri spettatori, nel teatro finalmente pronto.
I Taviani hanno deciso di girare questo film nella maniera più sobria e scarna possibile. E hanno fatto bene: Cesare Deve Morire dura poco più di un'ora (e forse anche per questo è di un'intensità incredibile), la scelta del bianco e nero è perfetta (esalta la tristezza del luogo e illumina lo sguardo e i gesti degli attori), e questo mescolare vero e falso (la rappresentazione della pièce nei luoghi fisici in cui i carcerati vivono), amplifica il testo ma anche il dramma di ciascuno degli attori. E' un film dove nulla è superfluo, tutto serve, e dove l'emozione nasce dalla sofferenza vera di uomini abituati tutti i giorni a dover fare i conti con il peso dei loro errori/orrori. Meravigliosa la scena dei provini, dove ai carcerati viene chiesto di dichiarare le proprie generalità in due modi diversi: prima in un tono di grande preoccupazione e tristezza (con un'ipotetica moglie che li aspetta poco lontano ma dalla quale forse saranno separati a lungo) e poi in un tono di grande incazzatura. In quei pochi minuti, la personalità di ciascuno di loro irrompe sulla scena, con risultati davvero esilaranti. La cosa più divertente è che per alcuni di loro non esiste differenza tra uno stile ed un altro: sono talmente incazzati che recitano nello stesso modo entrambe le situazioni. La bravura dei carcerati come attori, comunque, è al di là dell'inimmaginabile. 
E tanto più risalta se confrontata ai personaggi minori del film, tipo le guardie giurate o il regista teatrale, Fabio Cavalli, che nella vita è il regista vero di queste rappresentazioni in carcere - bravissimo - ma come attore è veramente scarsino, mentre Cassio, Bruto, Cesare, Antonio, se li avesse incontrati un giorno per caso Martin Scorsese, sarebbero tutti finiti in Goodfellas senza neanche battere ciglio.
Il loro riscatto come esseri umani, è chiaro, passa dal teatro, ed è miracoloso osservarli mentre lottano corpo a corpo con i ricordi, i rimorsi, i pezzi di vita che li hanno portati ad essere lì dentro (dopo i provini, ogni carcerato che ha avuto una parte ha diritto ad un intensissimo primo piano sotto il quale si può leggere il reato commesso e gli anni della pena).  
"Da quando ho conosciuto l'arte, questa cella è diventata una prigione".
Pronuncia l'attore che interpreta Cassio alla fine del film. La verità, è che conoscere l'arte significa capire di stare in una prigione anche per chi in cella non ci vive. L'arte è quella cosa magica che ci fa capire quanto siano limitate le quattro mura di casa nostra, che ci fa venire voglia di uscire (noi che possiamo!), di capire meglio, di andare verso gli altri e verso tutto ciò che è altro da noi. L'arte, si sa, è la vera differenza tra noi e gli animali: gesti totalmente inutili come la contemplazione di un quadro, la visione di un film, la lettura di un libro o di una poesia, fanno di noi essere umani migliori. Ci elevano. Ci fanno dubitare. Ci trasportano. Ci avvicinano, sempre, alla nostra più vera essenza.
In cella, per davvero (perché è nelle loro teste), ci stanno solo gli ignoranti. 
Per loro, fine pena, mai.

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