lunedì 31 dicembre 2012

As time goes by

Here we are again: the last post of the year.
I have been to the movies 83 times in 2012 (yes, I know, it’s a sickness!) and I have seen many interesting things. I’ll let you know about the ones I liked most next February, as usual, at the time of the Zazie D’Or.
Many cinematographic things happened as well, from the glass of champagne with Meryl Streep in a fancy Paris restaurant, to the dinner in New York with Norah Ephron (few months before she sadly passed away), to the meetings with some great film-makers: the master class of Francis Ford Coppola at the Gaumont Parnasse, the meeting with Emanuele Crialese and Donatella Finocchiaro for the avant-première of Terraferma, the one with Thomas Vinterberg for the avant-première of his Jagten (both in one of my favourite cinema in town, Le Cinéma des Cinéastes). 
And it was nice to bump by chance into French film-maker Christophe Honoré outside a theatre in Abbesses where we just saw Hiroshima, Mon Amour (ah, serendipity!).
I hope 2013 will be plenty of great movies and great things for you all, dear readers.
Let’s wish that all our dreams come true… or, at least, that all our dreams come true… in a movie.  
Happy New Year!!!
Sincerely yours,
Zazie

domenica 30 dicembre 2012

Alternative Movie Posters

Quando si è appassionati di cinema, di solito si ama tutto di un film, titoli di testa e titoli di coda compresi, per non parlare del poster creato per distribuirlo.
Nei cento e passa anni della storia del cinema, ci sono stati uomini che hanno saputo elevare il poster cinematografico a vera e propria opera d'arte, primo fra tutti quel genio assoluto di Saul Bass. E' a lui che si devono il poster e i titoli di testa più meravigliosi dell'universo terracqueo, quelli di Vertigo di Alfred Hitchcock e, in tempi più recenti, quelli straordinari di The Age of Innocence di Martin Scorsese (grande fan di Saul Bass, al quale non sembrava vero di poter collaborare con lui).
Personalmente, subisco moltissimo il fascino della grafica di un film, e ho elaborato una teoria secondo la quale meno curati sono i titoli di testa di un film e meno bello è il film in questione (sarà per questo che Vertigo nell'ultimo sondaggio di Sight & Sound è stato dichiarato miglior film di tutti i tempi?). 
Un po' per questo, un po' perché ho la casa tappezzata di poster cinematografici, un giorno su Facebook la mia attenzione è stata attirata da quanto veniva postato regolarmente da un mio amico, Stefano Reves Spalluto. Oddio, ad essere sinceri, "amico" è una parola grossa. Io e Stefano siamo amici su Facebook senza mai esserci né visti né sentiti. Un grande classico dell'era moderna, secondo il quale si familiarizza con alcune persone semplicemente perché si hanno degli amici e dei gusti in comune. 
Ecco, quando sento parlare male dei social networks, io certe volte vorrei fare degli esempi come questo, perché non è vero che allontanano, nella mia esperienza quasi sempre avvicinano, e sono anche fonte di straordinarie scoperte. Insomma mi sono accorta che Stefano pubblicava sulla sua pagina dei poster di cinema alternativi notevolissimi! Al terzo consecutivo, ero completamente conquistata: i poster erano bellissimi e i film che sceglieva pure. Così gli ho scritto, chiedendogli di mandarmene un po' da vedere, perché mi sarebbe piaciuto parlarne nel blog. Stefano era assai stupito: da persona brava ed intelligente, possiede anche quella qualità sempre più rara da trovare in giro che è l'umiltà (e mi ha citato la famosa battuta di Groucho Marx secondo la quale non vorrebbe mai fare parte di un club che lo annoveri tra i suoi iscritti). Anche quando gli ho chiesto una piccola bio di presentazione, le sue parole sono state queste: Credo non esista nulla di meno interessante. Sono un contadino del sud, 28enne, da sempre sostenitore di una sana senilità, con delle basi di photoshop e tanta fiducia nel proprio senso estetico (aggiungere altro sarebbe civetteria). Sarà pure sostenitore di una sana senilità, il nostro Stefano, ma guardate che belle cose riesce a fare (alla fine, ho deciso di pubblicare tutti i lavori che mi ha mandato, talmente mi piacevano):
M - The Monster of Düsseldorf  Fritz Lang (1931)
Citizen Kane - Orson Welles (1941)
The Three Caballeros - Norman Ferguson (1944)
À bout de souffle - Jean-Luc Godard (1959)
Psycho - Alfred Hitchcock (1960)
La Notte - Michelangelo Antonioni (1961)
Jules et Jim - François Truffaut (1962)
Le Mépris - Jean-Luc Godard (1963)
Le Vacanze Intelligenti (episodio da Dove vai in vacanza?) - Alberto Sordi (1978)
 Wittgenstein - Derek Jarman (1993)
Quello che adoro nei poster di Stefano è che tutto ruota intorno ad un piccolo ma fondamentale dettaglio: dalle finte ali del piccolo Wittgenstein alla macchina che si butta nel lago di Jules et Jim, dalla planimetria della Casa Malaparte di Le Mépris alla boule de neige di Citizen Kane, la trama, lo stile, il messaggio di un film è subito intuito. I suo poster sono una piccola scossa elettrica anticipativa: ti mettono l'acquolina in bocca prima di cominciare a mangiare tutta quella roba buonissima. 
Quando Stefano è stato così gentile da chiedermi se c'era un poster di cinema alternativo che avrei voluto per il blog, non ho resistito a chiedergli di inventarsi questo:
In the Mood for Love - Wong Kar-Wai (2000) 
Non so voi, ma io trovo che la canotta di Tony Leung sia un po' il suo capolavoro. 
Bravo, Stefano!



lunedì 24 dicembre 2012

A Very Mad Men Xmas!

Dear Friends,
Wherever you are, in a cold or warm climate, I wish you a Merry Xmas with the people you love.
This is not the best moment of the year for many, and this is why I have decided to use a scene from the last season of Mad Men as my Xmas piece.
If I didn’t choose a scene from It's a Wonderful Life by Frank Capra, or The Sound of Music by Robert Wise, it is because I think life is more complicated than wonderful. Or at least it is for me nowadays. Mad Men suits me better, with its mixed feelings of sadness and joy, hope and despair, ugliness and wonder.
As in this dialogue between Don Draper and Joan Harris, in which – in the space of few minutes – they are able to talk about many heavy things in life but always with this subtle and splendid sense of humour, I want to believe that life is full of surprises and that a bunch of flowers with the right words on it is waiting for us all.

A very Mad Men Xmas from your Zazie, dear readers!

lunedì 17 dicembre 2012

Les Invisibles

La vita e il cinema, qualche volta, si intrecciano. Si parlano tra loro senza che noi l’avessimo previsto, e può succedere che i film facciano da cassa di risonanza a situazioni reali e contingenti.
Ieri pomeriggio ero alla manifestazione “Mariage pour Tous”, dove un bel gruppo di persone (eravamo più di 100mila) ha marciato pacificamente da Place de La Bastille ai Jardins du Luxembourg in favore di una legge che permetta a tutte le coppie, etero e omosessuali, di sposarsi.
Ero lì che camminavo con i miei amici e guardandomi intorno non potevo fare a meno di pensare ad un bellissimo documentario visto qualche settimana fa: Les Invisibles, di Sébastien Lifshitz

Questo regista francese di 44 anni, insegnante alla Femis (la scuola di cinema di Parigi), ha sempre messo al centro dei suoi lavori il tema dell’omosessualità. Il suo ultimo film non fa eccezione: Les Invisibles raccoglie le testimonianze di vita di alcune donne e alcuni uomini, in coppia e singles, tutti accomunati dal fatto di essere omosessuali e dall'essere nati tra le due guerre. Si tratta quindi di persone piuttosto anziane, che hanno dovuto fare i conti con una mentalità ben più retrograda di quella attuale, e che hanno dovuto lottare (e parecchio) per poter esprimere in libertà e senza condizionamenti esterni la loro identità sessuale. L’altro elemento interessante è che quasi tutti i protagonisti vengono da un contesto non urbano, o comunque non da grandi città (a parte una coppia che sta a Marsiglia, tutti gli altri vivono in campagna o in piccole città di provincia). La loro sfida dunque è stata ancora più forte e la lotta ancora più ardua. 
Ognuno di loro ha avuto percorsi differenti: c’è chi ha capito subito di essere omosessuale, l’ha vissuto bene e si è impegnato politicamente per i diritti delle minoranze, chi lo ha capito dopo aver fatto una famiglia, con figli già grandi, chi è stato in tutta franchezza bisessuale sin dalla più tenera età (è il caso di un simpaticissmo signore di 80 anni che ha addosso un’allegria contagiosa), chi invece, oppresso da una famiglia troppo borghese e dalla mentalità penosamente ristretta, ha dovuto passare attraverso un percorso doloroso di repressione della propria sessualità per poi iniziare un lento cammino di consapevolezza. 
Quel che è certo, è che per nessuno di loro è stato facile. La coppia di donne che si trova senza lavoro dopo aver dichiarato nei rispettivi uffici di essere omosessuale, è un esempio che vale per tutti. Eppure, nessuno di loro si è dato per vinto. Nello specifico, queste donne si sono trasferite in campagna, dando vita ad una azienda agricola che ha fatto la loro felicità, sia dal punto di vista materiale che spirituale. 
La bellezza di Les Invisibles sta proprio nella limpidezza e nella semplicità con cui Lifshitz ha scelto di raccontare queste storie: i protagonisti, filmati nelle loro case o all'aria aperta, in situazioni quotidiane, senza nessuna messa in scena particolare, potrebbero essere nostri parenti, o nostri vicini di casa, o persone che incontriamo per caso al mercato. Quello che raccontano, lo possono capire tutti, nessuno escluso. A volte ci fanno ridere, a volte ci commuovono. Quello che hanno vissuto, forse, non è comune, ma è reale, tangibile, umanissimo, e qualsiasi persona, anche la più lontana da questa tematica, dotata di un briciolo di intelligenza (e di un pizzico di compassione, che non guasta mai) lo può integrare nel proprio bagaglio di conoscenze. 
La cosa straordinaria di queste persone è la loro normalità. 
Ed è questo il concetto più importante che traspare dal film. Essere omosessuali non rende le persone né migliori né peggiori, non rende speciali, non rende tremendi, non rende niente. L’unica differenza è che un omosessuale ama una persona dello stesso sesso anziché una persona di sesso opposto. Tutto qui. E non è che sia una scelta. Non è che uno lo fa apposta per dare fastidio all’altro 95% della popolazione. E’ un dato di fatto, punto. Ma è davvero così difficile da capire? E la lotta di questi invisibili è stata proprio quella di voler essere accettati nella loro normalità, di trovare posto in una società che voleva a tutti i costi farli sentire dei mostri, degli esseri inferiori, delle orribili minacce. Non hanno voluto nascondersi, perché sapevano di non stare facendo nulla di male, stavano solo vivendo la loro vita.
Ieri alla manifestazione, ho pensato che tutti noi avremmo dovuto dire grazie a queste persone anziane che prima di noi hanno fatto valere i loro diritti, spendendo ben più di tre ore a camminare nel freddo, rischiando ben più di un semplice pomeriggio tolto allo svago, per dire chiaramente al mondo come stanno le cose. 
Ieri, guardando i miei amici gay e i loro genitori (ah, quanto mi piacciono queste mamme e questi papà che così sereni ed orgogliosi sfilano di fianco ai loro figli!) ho pensato due cose: la prima, è che mi sembravano tutto tranne una minaccia alla pace, la seconda, è che per fortuna non sono più invisibili.
E poi, come in un lampo, ho rivisto una scena tratta da Six Feet Under, quella in cui al funerale di un ragazzo gay che è stato picchiato a morte, alcuni manifestanti religiosi si presentano al funerale con dei cartelli con la scritta: God Hates Fags! (Dio odia i froci!), e Nate, il fratello di David (che è gay), si avvicina a quello che tiene il cartello e gli urla in faccia: God Hates Morons! (Dio odia gli imbecilli!).
Volevo ben dire...

venerdì 7 dicembre 2012

Tabu

La magia del cinema.
L'inequivocabile sensazione di essere di fronte ad un'opera d'arte che ci parla con un linguaggio misterioso, che ci trasporta in un luogo che è stato un ricordo prima di diventare un'immagine, qualcosa di prezioso rimasto sulla retina della nostra memoria e che riscopriamo con stupore e meraviglia. 
Quelle sorprese che verso la fine dell'anno non ti aspetti, quelle cose che dici, vabbé, vedrò ancora quei quattro-cinque film per tirare a campare fino a che Dicembre sia concluso e poi ti rendi conto che avevi voglia di tutt'altro. Di questo, anche se questo non sai bene che cosa sia, almeno finché non ti siedi nel buio di un cinema e non ti metti a guardare Tabu, del portoghese Miguel Gomes. E allora ti siedi comoda e inizi a respirare diversamente, perché l'occasione lo richiede. L'occasione è delle più solenni.
Il cinema, signore e signori, non è affatto morto, ma è vivo, vivissimo.
E lotta insieme a noi.
Gianluca, Aurora e il Monte Tabu
Lisbona, ultimi giorni del 2010. Pilar, una donna di mezza età che vive sola, va in aiuto di una vicina di casa, Dona Aurora, un'anziana signora che, abbandonata dall'unica figlia, è accudita dalla badante (Santa, di nome e di fatto, una donnona di Capo Verde). Aurora si è giocata tutti gli ultimi risparmi al Casinò di Estoril e con la testa ci sta un po' poco: la notte di capodanno si sente male e all'ospedale, morente, lascia il nome e l'indirizzo di un uomo sconosciuto, chiedendo di andarlo a chiamare. Pilar va allora a cercare l'uomo: si chiama Gianluca Ventura, è un portoghese di origini italiane (genovesi, per la precisione), e sarà lui a raccontare a Pilar e Santa, davanti ad un caffé in un centro commerciale, la bruciante storia d'amore che, in gioventù, lui ed Aurora hanno vissuto in Mozambico (anche se il paese nel film non è mai specificato), ai piedi del monte Tabu.
Aurora (Ana Moreira) e Gianluca (Carloto Cotta)
Diviso in due parti: “Paradiso Perduto” e “Paradiso”, girate rispettivamente in 35 e 16 mm, in un sontuoso bianco & nero, Tabu è un film che a mezz’ora dall’inizio compie una scelta stilistica che definire azzardata è dire poco. Quando Ventura inizia a spiegare la sua storia con Aurora, e da Lisbona si passa all’Africa, la pellicola si trasforma infatti in un film raccontato. Ovvero: la voce di Ventura narra passo dopo passo quello che è successo, e noi vediamo scorrere in parallelo le immagini, ma i dialoghi non si sentono. Restano solo i suoni della natura e la musica (quando c’è). In pratica, è un film muto con una voce narrante anziché con gli intermezzi scritti come accadeva agli albori del cinema.
The Mario's Band
 Dopo un primo momento di spaesamento, si viene travolti da una sensazione di pura felicità. Ci si rende conto che la mancanza di dialoghi rende tutto più intenso e speciale. All’improvviso, si sta più attenti alla voce di Ventura, a quanto racconta (ah, la bellezza straordinaria della lingua portoghese in generale e di questi testi in particolare!), a dove ci vuole portare. E le immagini, come se prendessero nuova vita, ci rivelano dettagli e sfumature rimaste nell’ombra. Così il gioco di sguardi tra il giovane Gianluca ed Aurora, la prima volta che si incontrano, sono di una tale evidenza che ci si stupisce che nessuno degli altri se ne renda conto. E le parole delle lettere che si scambiano i due amanti diventano più forti, uniche ed importanti. E’ come se l’occhio si abituasse a poco a poco ad un linguaggio sconosciuto, e per capirlo meglio non si possa far altro che lasciarsi trascinare dalla corrente, ed essere travolti insieme ai protagonisti dall’intensità della loro passione. 
Aurora (Ana Moreira)
Dandy, il coccodrillo di Aurora
Tabu è un film, per ammissione dello stesso regista, sulle cose scomparse: una persona che muore, una società che non c’è più, un’intera epoca che non può che esistere nella memoria di chi l’ha vissuta. Di questa malinconia, di questo senso di cose perdute, è impregnata tutta la pellicola. C’è spazio per cose profonde e profondamente tristi, in questo film: la solitudine, l’infelicità, e il dolore per un amore che non si può vivere, eppure su tutto sembra posarsi la leggerezza della luce africana, di questi volti senza parole, delle vecchie canzoni cantate dalla Mario's Band, di questi attimi di felicità assoluta e transitoria. Rimaniamo lì anche noi a fissare le immagini, e a chiederci dove abbiamo già conosciuto tutto questo, sperando di poterlo rivivere. Il nostro paradiso perduto.
 
Io ve lo dico, questo è uno dei film più belli che abbia mai visto (e Zazie, vi assicuro, ne ha visti parecchi).

giovedì 29 novembre 2012

The EYE


It is not a mystery that two of the things I love most in life are cinema and travels.
This is why visiting a place to see something related to movies represents one of the greatest pleasures, for me. If, on top of that, some friends are involved, then it is just perfect.
Last week-end I went to Amsterdam to see the city’s new cinema museum, EYE (a particularly appropriate name, since I’m still struggling with my own!).
Linda and Gaetano, my lovely friends living there, talked to me about this place a while ago and I was very eager to see it. Located on the Northern part of the city, the museum can be reached by boat from Amsterdam Central Station (t is a ride of just three minutes and it doesn’t cost a penny). Made by Viennese firm of architects Delugan Meissl Associated, the building is quite amazing: it looks like a big white whale lying down on IJ River. We went there towards the end of the afternoon, and it was quite fascinating to see the city lights from there and to pass from the cold and dark outside to the warm and bright inside (the belly of the whale).

 
The four floors contain different facilities: in the basement there is an exhibition space and a cinema (67 seats, Art Deco Style, mainly used for screening classics and silent films), at the entrance floor, the biggest one, there is the box office, a shop, two cinemas (both having 130 seats, but one is called the Black Box, because everything is so black that nothing distracts the viewer from the screen, while the other can be transformed into a large empty space for installations and events) and a bar-restaurant with a terrace, at the first floor there are more exhibition and workshop spaces and on the top floor there is the biggest cinema (315 seats, having a built-in cinema organ to provide live musical accompaniment to silent films!).
 
 
EYE doesn’t have a permanent exhibition, it organizes four major exhibitions per year and it has a collection of more than 40.000 titles, from avant-garde movies to Hollywood classics until the contemporary indie works: in the basement there are lovely small cabins where people can watch movies choosing from this wide selection.
I really wanted to see a film there or in one of the cinemas, but I had already seen all the movies they were showing at the moment (the side effects of being a cinema freak) and I didn’t have enough time (the basement closes at 6 pm) to enjoy an old movie in those little yellow nests.
I enjoyed browsing through the exhibition, though, and of course I stopped by at the shop, where I managed to ruin myself buying cinema post-cards, a book about Vertigo by Alfred Hitchcock and a couple of issues of Sight & Sound magazine. 
 
I have to say I was very impressed by the space of the bar-restaurant.
It is huge, and usually big places are cold and gloomy, but here it is exactly the opposite and it is even cosy. Since it was apéro time, my friends and I asked for a table. To my surprise, the woman at the counter told us that we could wait for one or that we can have our drinks at the bar and seat down on the wooden stairs leading to the cinema 1. In fact, we decided for this second option and it was a great idea. From where we were seated, we had a lovely view of the restaurant, the terrace and the city of Amsterdam in the distance. More and more people were doing like us, and in no time the stairs were very crowded. When the movie of cinema 1 was over, everybody came down the stairs and stopped for drinks. There was such a lovely atmosphere, I could have stayed there for ever.
 
 
In fact, as usual, it doesn’t matter if it is Paris, Amsterdam or Hong Kong: home is where a cinema is… but if you happen to be in Amsterdam, don’t forget to see its EYE!

mercoledì 21 novembre 2012

Playtime

Pensate che il cinema sia completamente inutile nella vita di tutti i giorni?
Che non vi possa servire nelle cose pratiche? Per risolvere un problema? Far svoltare una serata? Ebbene no, cari lettori, il cinema serve sempre, anche per decidere dove andare a cena. 

Zazie, ad esempio, vive in una città con un numero così alto di ristoranti da far girare la testa. Scartando quelli troppo cari, o quelli troppo lontani da dove si abita e si lavora, ne restano talmente tanti che certe volte è persino scoraggiante doverli scegliere. Ecco che, in questi casi, il cinema viene in aiuto.
La settimana scorsa, un paio di miei amici volevano portarmi fuori a cena per dimenticare il brutto incidente che mi era capitato. Dove? Mi sono fatta guidare dall'unico criterio dal quale mi faccio guidare nella vita: ha a che fare con un film? Allora lo prendo, grazie! Da tempo volevo provare questo ristorante che porta il nome di uno dei miei film preferiti di tutti i tempi: Playtime di Jacques Tati. Detto, fatto. 

 
Playtime fa parte di una categoria di film a cui sono molto affezionata: quella degli anti-depressivi naturali. Quei film cioé che non importa quanto tu ti senta giù di morale e ti pare che la tua vita non abbia più senso, basta che li rivedi, e il mondo ti sorride di nuovo.
Tati ha iniziato a girare Playtime nel 1964, ma il film è uscito nelle sale solo nel 1967. Più che un semplice tournage, il film si è rivelato una grande, rovinosa avventura, per il regista. Dopo che si era reso conto, avendo cercato di girare per una settimana nella zona dell’aeroporto di Orly, che sarebbe stato impossibile avere il set da lui immaginato in un ambiente naturale, Tati ha fatto costruire in un’area di 15.000 m2 appena fuori Parigi, una vera e propria città (ispirata alla capitale francese così come a tutte le altre capitali moderne), dal nome sibillino Tativille. Inoltre, il regista decide di girare il film in 70 mm (unico caso nella storia del cinema francese), e questo per riuscire a rendere visivamente la grandezza degli edifici e degli spazi presenti nel film (tecnica tuttavia molto costosa). Alla sua uscita nelle sale, Playtime viene accolto malissimo. I critici, tranne alcune eccezioni, non lo capiscono, e il pubblico, che vuole vedere un film di Tati solo per ridere a crepapelle, rimane perplesso di fronte alla storia raccontata. Tutto questo, unito ai problemi di budget già nati in corso di realizzazione, farà fallire la casa di produzione del regista: Tati è costretto a vendere la propria casa (quella in cui vive, intendo), perde i diritti su tutti i suoi film e vede sfumare il sogno di conservare Tativille per le generazioni di futuri registi. Prima di morire, nel 1982, farà altri due film: Trafic e Parade, ma niente sembra poterlo consolare dal dolore per il "disastro" Playtime
Oggi, per fortuna e giustamente, questo film viene considerato un capolavoro assoluto del cinema mondiale. 
Monsieur Hulot, alter ego del regista, figura tenerissima di spilungone allampanato dall'eterno look cappello+impermeabile+ombrello, si aggira sperduto per la città. Ha un semplice appuntamento di lavoro, ma raggiungere l'ufficio dove lo aspettano sembra un'impresa più che titanica. Sul suo cammino incrocia una comitiva di turisti americani sperduta quanto lui. Quando finalmente riesce ad arrivare a casa, sembra riuscire a perdersi anche negli appartamenti tutti uguali del palazzo in cui vive. Senza parlare della cena nel ristorante super chic appena finito di sistemare e nel quale tutto sembra essere in precario equilibrio (che ovviamente Hulot contribuirà a distruggere). 
Film praticamente muto dove solo il genio infinito di Tati fa sentire la sua voce, Playtime mostra con un'eleganza e una grazia meravigliose il lato assurdo e demenziale del vivere moderno attraverso immagini, suoni, e metafore visive per i quali si resta a bocca aperta come bambini di tre anni. I luoghi asettici e tecnologici, il traffico impazzito che sembra una giostra, la vita negli appartamenti tutti uguali con le pareti a vetro, il finto glamour dei ristoranti di tendenza (la scena assolutamente mitica ed esilarante della cena), la freddezza e la bruttezza di certa architettura moderna, la mancanza di comunicazione reale tra esseri umani, i malefici della globalizzazione, insomma Tati alla fine degli anni '60 ci butta già là con assoluta nonchalance tutti i temi di discussione degli anni 2000. Riuscendo a farci ridere, ad intenerirci, e a ricordarci che basta poco (grazie al cielo!) per ritrovare la bellezza del mondo. Come in quelle brevi sequenze in cui la turista americana, alla ricerca disperata di una Parigi da cartolina, vede riflesse nelle porte a vetro le immagini dei monumenti più famosi della città.
Una pura delizia, una gioia infinita. Dio, quanto lo amo questo film.
Quello che mi è piaciuto del ristorante Playtime, è che ha veramente cercato di ricreare l'atmosfera del film: nell'arredamento, nei colori, dal menù alle stoviglie, tutto è in puro stile anni '60, con un piccolo tocco alla Monsieur Hulot. Senza contare che il cibo è eccellente:
Vabbé, insomma, lo avrete capito, il ristorante era solo una scusa per parlarvi di un film che adoro. 
Del resto, se la mia più grande passione fosse la cucina, starei scrivendo tutto un altro blog, non vi pare??!



Se volete provarlo, Playtime si trova al 5, Rue des Petits Hotels, 75010 Paris. 
Tel. 01 44 79 03 98. Attenzione! E' chiuso durante il week-end. 
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