domenica 22 maggio 2011

Norwegian Wood (ノルウェーの森)

Non esiste limite, per me, al numero di visioni possibili di una stessa pellicola. Sono capace di imparare i dialoghi a memoria, rivedere le stesse scene 40 volte, riprovare l'identico piacere nel sentire per la centesima volta la stessa replica.
Con i libri, invece, non mi capita quasi mai. Il potere delle parole esercita su di me una diversa fascinazione, che molto ha a che vedere con l'istante, con il qui e l'adesso, con il magico che si sprigiona mentre leggo una frase, e se la rileggo mi pare che in qualche modo qualcosa si perda. Esiste tuttavia un'eccezione, uno stesso libro che ho letto a distanza di moltissimi anni (a 20 e 40): Norwegian Wood, di Haruki Murakami. E non è un caso. Norwegian Wood è uno dei miei romanzi preferiti, e ricordo di essere rimasta folgorata da tutto la prima volta che l'ho letto: la storia, l'ambientazione (Tokyo alla fine degli anni '60), i personaggi (in particolare da quello di Midori, un amore a prima vista!), il meraviglioso stile narrativo di Murakami. E' un libro speciale anche perché molto legato alla mia vita: stavo studiando giapponese, in quegli anni, e la traduzione in italiano del romanzo era stata affidata a quello che, ancora oggi, è il mio miglior amico. E' quindi con grande aspettativa mista ad un po' di preoccupazione che sono andata a vedere la trasposizione cinematografica del libro, diretta dal regista vietnamita Tran  Anh Hung e scritta da lui e dallo stesso Murakami (questo mi faceva ben sperare!).
Nella Tokyo della fine degli anni '60, quella delle contestazioni studentesche, Toru Watanabe, un giovane universitario, si trova a vivere uno dei momenti più intensi della sua vita. Ritrovata per caso Naoko, che è stata la ragazza del suo miglior amico Kizuki, suicidatosi un paio d'anni prima, Toru si innamora di lei, ricambiato, ma per Naoko è impossibile riuscire a vivere questo amore. Mai completamente rimessasi dal suicidio di Kizuki, la ragazza decide di farsi ricoverare in una struttura psichiatrica, lontana dalla città e immersa in una foresta, dove Toru riesce a farle visita di quando in quando (nei pochi momenti in cui Naoko sente di poter gestire la sua presenza). Nel frattempo, a Tokyo, Toru incontra una strana ragazza, Midori, un miscuglio di energia, follia e tenerezza straripanti, dalla quale si sente irresistibilmente attratto. Ma un nuovo, drammatico evento, darà una svolta alla sua vita, precipitandolo in maniera drammatica dall'adolescenza all'età adulta. 
Dirò subito le cose che non mi sono piaciute del film, e prima fra tutte la scelta dell'attrice che interpreta Midori. Forse perché amo incondizionatamente questo personaggio e ne ho un'idea ben precisa in testa, ho trovato che il fim non le rende per nulla giustizia. Midori è una forza della natura, è una mezza pazza, forse nemmeno tanto bella, ma viva, sensuale, allegra, una specie di tornado. Kiko Mizuhara, l'attrice scelta per interpretarla (in realtà una cantante molto famosa in Giappone qui alla sua prima prova cinematrografica), è bellissima ma per nulla speciale, tutt'al più semplicemente "simpatica". Questo è un vero peccato, perchè una grande forza del libro stava nella differenza tra le due donne di cui Toru è innamorato, mentre nel film si ha l'impressione che siano piuttosto simili, problemi psicologici a parte. L'altro difetto, piuttosto inevitabile quando si tratta di condensare in poco tempo un materiale narrativo tanto ricco, è la perdita di alcuni passaggi o di alcune storie fondamentali (come quella magnifica di Reiko, ad esempio, la compagna di stanza di Naoko in clinica). Infine, c'è il difetto tipico di tutti i film di Tran Anh Hung: l'eccessiva perfezione stilistica delle immagini. Persino nel momento di massimo dolore, di assoluta disperazione, il quadro è impeccabile, gli oggetti mai fuori posto, la natura aggiustata a regola d'arte. Verrebbe voglia di andare lì e spaccare tutto o almeno mettere qualcosa in disordine (e ve lo scrive la blogger più control freak dell'universo). Detto questo, il film è un'ottima trasposizione del romanzo, grandioso nel catturare e ricreare una certa atmosfera che si sprigiona dalle pagine del libro (mi sono detta che qui c'entrava molto Murakami), la forza, il romanticismo e l'assoluto delle storie d'amore di quando si hanno 20 anni, con alcuni momenti davvero potentissimi (come il lungo monologo di Naoko in mezzo all'erba alta, una scena straordinaria, dove l'emozione supera di gran lunga la perfezione dell'immagine). Molto azzeccata la scelta dei due interpreti principali: Rinko Kikuchi (già apprezzatissima in Babel di Inarritu) è la fragile e tormentata Naoko, mentre Kenichi Matsuyama (giovanissimo ma già molti film all'attivo in patria) è il solitario e romantico Toru. 
Qualche anno fa, in una calda estate giapponese, mi è capitato (ありがとうございます, Amitrano-san!) di prendere il té con Haruki Murakami nel suo studio di Tokyo. Dato che si trattava di uno dei miei scrittori preferiti in assoluto, ero al settimo cielo ma anche molto stupita di essere così in soggezione. Io che di solito non ho vergogna di niente, di fronte a quell'uomo così silenzioso e discreto, non avevo il coraggio di proferire parola. Murakami aveva uno sguardo vivo e indagatore, e nonostante non si possa definirlo un bell'uomo, emanavano dalla sua persona un fascino ed un carisma inauditi. Sulla porta, prima di uscire, a sorpresa, Murakami mi ha fatto i complimenti per la borsa che portavo (una Marimekko, evviva i designer finlandesi!): ma come ha fatto a notare la borsa che avevo? ho pensato stupita. Misterioso, intelligente ed imprevedibile, proprio come i suoi romanzi.  

mercoledì 11 maggio 2011

Animal Kingdom

 
Melbourne, Australia. A boy is seated on a sofa in a poor living room: he is looking at some stupid TV program, while a woman is (apparently) sleeping near him. Somebody knock on the door, and two paramedics enter the room. Are you the one who called? They ask the boy. Yes, he answers, his eyes still glued to the screen. What did she take? Heroin.  
Welcome to the movie with the chilliest first scene of the whole cinema history, welcome to Animal Kingdom.
That woman, just for you to know, was the boy’s mother, and she is dead. For 17 years she tried to keep her son away from the rest of her lovely family, but now that she is gone, Josh is obliged to call his grandma and see if she is willing to help (knowing that mum and daughter didn’t talk to each other for ages…). Grandma is (unfortunately) ready to take care of him and Josh is welcomed inside the Cody family, the least suitable one in the world for a young mind. The Codys are a bunch of bad criminals: the eldest is Andrew “Pope”, specialized in armed robberies, the middle one is Craig, a drug dealer, and the youngest is Darren, the weakest one, who follows the other two in their crazy plans. Above them all, like a dark queen, mum Janine “Smurf” reigns. After one of their partners in crime is shot dead by the police, Andrew and Craig start a vengeance that will suck them into a spiral of deadly consequences. Young Josh, torn between his family, his girlfriend, and a detective who wants to take him out of troubles, will find himself in a very bad position. Will he be able to save himself?  
First feature film (wow!) by young Australian director David Michôd, Animal Kingdom (Winner of the Sundance Film Festival 2010) is a modern greek tragedy of epic proportions. It is tough, gloomy and hopeless: no light at the end of this dark tunnel, I am afraid. It is also one of the most anxious movies ever: you literally expect the worst at every moment, and very often the worst arrives and still surprises you. It is interesting to see and live things through the eyes of young, naïve (sometimes irritatingly so) Josh, and to feel frightened by the experiences he is going through. Families are deadly, I read once in a book, and this is particularly true for the Codys. Michôd seems to have had good maestri at school (Scorsese docet) but his style is very personal and he creates a scruffy, vaguely 70’s universe that suits perfectly to the story.  
The cast: the Codys brothers are spectacular, especially Ben Mendelsohn as the “Pope”, so good in hiding his craziness under a still surface. In the role of Sergeant Nathan Leckie, Guy Pierce is simply perfect. I love, love, love this actor: he is such a chameleon. In his career, he has played: a drag queen carrying the most incredible Abba’s souvenir in the middle of the Australian bush (The Adventures of Priscilla, Queen of the desert), the toughest and heartless American detective (L.A. Confidential), an anguished and very confused man (Memento), Andy Wharol (Factory Girl), a criminal who has to take a tough decision in a weird Australian western written and directed by Nick Cave (The Proposition), a king who prefers love to kinging (The King’s Speech) and, in this movie, a stern but very human police officer who tries his best to make Melbourne a better place to live (good luck!). James Frecheville as young Josh is almost too good to be true and I prefer to see him in another movie before giving you my opinion, but the real gem, here, is without any doubt Jacki Weaver. Her portrayal of the scary, amazingly cruel, probably incestuous mother is unforgettable. The actress manages to show all the subtleties and the ambiguousness of this terrifying human being with so much charisma that you can’t get enough of her.
You are just very happy to know that she is on the screen and, well, she is not your mother.

domenica 8 maggio 2011

Remembering Colette

Quando si ama tantissimo un regista e si è cresciuti vedendo i suoi film, si ha la tendenza a considerare gli attori che hanno recitato per lui un po' come persone della propria famiglia.
O, almeno, a me succede così.
Dal momento che non c'è famiglia cinematografica che mi sia più cara di quella creata da François Truffaut, ogni volta che muore uno dei suoi attori, io mi sento malissimo. Qualche anno fa, ad esempio, sono andata con il cuore affranto al funerale di Claude Jade, un'attrice bravissima che era stata Christine Darbon, la moglie di Jean-Pierre Léaud nella serie Doinel. E' invece di questi giorni, purtroppo, la notizia della scomparsa di un'altra amatissima e truffautiana attrice francese, Marie-France Pisier, che è stata Colette, il primo (infelice) amore di Doinel, e che più volte ha fatto la sua apparizione nei capitoli della serie.
Nata in Vietnam nel 1944, la Pisier ha trascorso l'infanzia in Nuova Caledonia, dove il padre era all'epoca governatore coloniale (nel 1984 uscirà un suo romanzo ispirato a quel mondo, dal titolo "Le Bal du Gouverneur", dal quale qualche anno dopo trarrà anche un film come regista). Rientrata in Francia per gli studi, attrice di teatro, viene scelta da Truffaut per interpretare Colette e da quel momento la sua carriera decolla: la Pisier ha lavorato con registi del calibro di Jacques Rivette, André Téchiné, Alain Robbe-Grillet, Raoul Ruiz e Luis Bunuel. Donna di grande impegno civile, è stata tra le firmatarie del manifesto di Simone De Beauvoir (Manifeste des 343 salopes) in favore del diritto all'aborto nel 1971.
L'ultima volta che l'ho vista recitare, è stato in un film del 2006 di Christophe Honoré, Dans Paris, dove era la madre di Louis Garrel e Romain Duris (mentre il padre era interpretato da Guy Marchand). Honoré, uno che nella vita ha mangiato pane e Nouvelle Vague, stava probabilmente pensando a Truffaut scegliendo questi due attori come genitori dei suoi protagonisti, e che piacere guardarli rubare la scena ai giovani con la loro bravura e la loro naturale complicità.
Tuttavia, per me, Marie-France Pisier resterà per sempre Colette, la ventenne che spezza il cuore a Doinel con la sua aria superiore e noncurante: dopo averlo fatto entrare in casa, lo lascia come un idiota continuare la cena con i propri genitori mentre lei se ne va fuori con un altro ragazzo, il suo, dal nome assai improbabile Albert Tazzi (clin d'oeuil di Truffaut all'attore protagonista di L'Année dernière à Marienbad, dell'amico Alain Resnais). 
Sacrée Colette... ci mancherai!

giovedì 5 maggio 2011

Tomboy

L’identità sessuale è un tema molto trattato, al cinema, ma in pochi hanno avuto il coraggio di esplorarlo dal punto di vista infantile. Lo fa un film uscito in questi giorni in Francia e che sembra aver stregato pubblico e critica: Tomboy (espressione inglese che significa “maschiaccio”), seconda prova di una giovane regista, Céline Sciamma, 30 anni, che già si era fatta conoscere al grande pubblico con un film che parlava di adolescenza (Naissance des Pieuvres, che ora mi pento amaramente di aver perso alla sua uscita quattro anni fa). 
E’ la fine dell’estate, e una giovane famiglia francese si è appena trasferita in un nuovo appartamento alla periferia di Parigi. Papà, mamma visibilmente in cinta, una figlia piccola e quello che a tutti gli effetti sembra un giovane figlio: capelli corti, pantaloni, canottiera, lo osserviamo mentre il padre gli insegna un po’ per gioco a guidare... insomma, un ragazzino di 10 anni. E’ solo quando lo vediamo uscire dalla vasca dopo che ha fatto il bagno con la sorellina, che ci rendiamo conto che si tratta in realtà di una ragazzina e, contemporaneamente, sentiamo la voce della madre chiamare il suo nome: Laure! Il problema, a questo punto, è che lo spettatore lo ha già metabolizzato come bambino, e si fa una grandissima fatica a considerarlo di un altro sesso. Non siamo i soli ad avere questa difficoltà: la condividiamo con la protagonista. Quando Laure raggiunge in cortile dei ragazzini per giocare ed una di loro, Lise, le chiede: come ti chiami? La sua risposta, sicura, precisa, spiazzante, è: Michael. E’ cosi che inizia un percorso tutto in salita per Laure/Michael, che dovrà fare i conti con la sua decisione e le sue inevitabili conseguenze.
Tomboy, vi assicuro, è un film straordinario. Il tema è delicato e complicato insieme, ed anche di una pesantezza infinita, ammettiamolo, ma la regista riesce in un piccolo miracolo, quello di raccontare la storia come se la vivessimo da dentro. Con l’inconsapevolezza e l’energia dell’infanzia, che trova un suo corrispettivo visivo nel calore e nella brillantezza dell’estate. Laure ci crede veramente, di poter sovvertire l’ordine prestabilito, e noi insieme a lei. Seguiamo con trepidazione i suoi tentativi coraggiosi e maldestri insieme di trasformarsi in un ragazzo e viviamo con ansia crescente il momento in cui, inevitabilmente, la vera vita prenderà il sopravvento (del resto, mancano solo pochi giorni all’inizio della scuola...). 
Tutto suona giusto in questo film girato velocemente (20 giorni di riprese in totale), con pochi mezzi, e pervaso da una luce speciale. Non so come la regista abbia potuto trovare un’attrice cosi giovane e talentuosa: Zoé Héran è spettacolare nella parte di Laure/Michael. La scena in cui si mette a giocare a calcio, si toglie la maglietta e sputa per terra come ha visto fare agli altri ragazzini, è un concentrato di bravura e tenerezza. Non è da meno la giovanissima Malonn Lévana nella parte della sorellina, una simpatica peste che si rivela a sorpresa un’incredibile ed abilissima complice della sorella/fratello. I genitori restano sullo sfondo ma sono fondamentali: Sophie Cattani nel ruolo della madre è estremamente vera e sensibile, e Mathieu Demy nel ruolo del padre (lui che è figlio di due mostri sacri come Jacques Demy e Agnès Varda!) è sobrio e disarmante di sincerità. 
Questo film ci pone di fronte a moltissime questioni, ma prima fra tutte la crudeltà della condizione di un essere umano che si sente in un modo ma è in un altro, costretto in un corpo che non gli appartiene. Il fatto che a soffrire sia una ragazzina di 10 anni, fa cadere di colpo tutte quelle barriere che di solito sorgono spontanee quando la persona coinvolta è un adulto. La sofferenza di Laure ci appare inumana, e si avrebbe voglia di credere, almeno per un attimo, che le cose per lei possano cambiare. 
Born this way... but for ever?
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